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Channel: Landmark – Samuele Silva
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Las Coloradas


Yellow Submarine

Custodi di un fuoco sacro

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Superga #01

I tifosi del Toro sono accusati di vivere nel passato, di essere amanti della retorica a basso costo. Probabilmente è vero. Ma siamo fieri di essere così, di sentirci ostinatamente diversi: in un mondo rutilante, che guarda solo ai successi e ai titoli, noi siamo orgogliosi di amare visceralmente la nostra storia e di esserne custodi nel tempo. Sono passati 69 anni dal quel tragico 4 maggio, da quel giorno di pioggia: sono tanti, tantissimi. La stragrande maggioranza dei tifosi granata non ha visto giocare il Grande Torino, eppure il ricordo della squadra italiana più forte di tutti i tempi è ancora vivo e indelebile nella memoria di tutti; e non può finire. Semplicemente Immortali.

Superga #03Superga #02

Se sei tifoso Granata hai perfettamente chiara l’idea di far parte di una comunità, di qualcosa più grande di te. Anzi: sentirsi parte di quella comunità, non è la cosa più importante. E’ l’unica cosa che conta! Se voi che leggete, non ne siete parte, non tentate di capire. Lasciate perdere, non fate neanche lo sforzo. L’unica cosa fondamentale è che rispettiate l’esistenza di un noi . E se quel noi è così diverso dal voi, non è colpa vostra. Perché per capire, bisogna essere entrati, almeno una volta, al Fila, quando era un prato con ruderi attorno, bisogna aver sentito, una volta appena, il Capitano, leggere i nomi sulla lapide di Superga ogni 4 Maggio. Essere del Toro, significa conoscere quel rumore dello schianto, senza averlo mai sentito e amare quella Squadra senza mai averla vista una volta giocare, ma soprattutto, essere del Toro significa, quella Storia, avere il desiderio e bisogno, di continuare a raccontarla. Essere del Toro, significa essere custodi di un fuoco sacro accesosi 69 anni fa, fra i rottami di un areoplano. (Mauro Berruto)

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Superga #07Superga #08Superga #09

Superga from Dentiera

Lazzi & Intrallazzi (Backstage)

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Lazzi & Intrallazzi #11

È la terza volta che fotografo la rappresentazione teatrale studentesca organizzata da Servi di Scena. E trovo estremamente stimolante (e divertente) fotografare il backstage: quest’anno mi è toccato in sorte il Garelli con lo spettacolo dal titolo ‘Lazzi & Intrallazzi’. Ho cercato, come sempre, di adeguarmi all’ambiente, di nascondermi e risultare invisibile per riuscire a realizzare un reportage aderente alla realtà (per quanto fattibile) senza interferenze ed espressioni forzate. Si tratta, essendo il fotografo elemento esterno, di un’impresa al limite, ma credo di essere riuscito a rendere tutto il più naturale possibile. E in queste foto (ne ho scelte 13+1) ho cercato di raccontare l’atmosfera che si respira nel dietro le quinte prima dello spettacolo: ed è una bellissima atmosfera. Ho scelto, come sempre in questo caso, il bianco e nero per concentrare l’attenzione sull’espressioni ed evitare i fastidiosi giochi di colore e illuminazione artificiale (nel caso davvero tremenda). La foto che ho scelto come copertina è tecnicamente sbagliata: la messa fuoco non è perfetta (ho scattato a F/1.2 e 1600 ISO), anzi, ma certe volte cogliere l’attimo è più importante persino della composizione e della tecnica. Capita poche volte, molto raramente, ma capita.

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Beyond the look

Lazzi & Intrallazzi

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Lazzi & Intrallazzi #24

Dopo aver raccontato il backstage veniamo alla messa in scena vera e propria. Quest’anno l’oggetto comune a tutte le rappresentazioni era uno strano pacco legato con delle corde (non saprei come definirlo) sulla sinistra del palco. La frase da citare era: “Le storie vanno raccontate se non vuoi che si perdano“. I ragazzi del Garelli hanno cercato di inserire l’oggetto misterioso nella storia, ma al mio occhio poco esperto non credo abbiano completato l’impresa. Ma questo è un altro discorso. Io non sono riuscito nemmeno a catturare la frase obbligatoria: d’altronde la mente del fotografo dev’essere concentrata su altri aspetti e diventa difficile riuscire a seguire il filo narrativo. Avendo la possibilità di muovermi liberamente in sala (e anche dietro le quinte) ho scattato sempre il con 70/200, che è l’ideale per questo tipo di foto. Ho impostato 1600 ISO, alternato fra F/4 e F/2.8 e prestato attenzione che il tempo di scatto (in priorità di diaframmi) non scendesse mai sotto 1/125; le luci (e la qualità del sensore) mi avrebbero permesso anche di scendere a 800 ISO, ma ho preferito non rischiare; un po’ di grana non ha mai fatto male a nessuno, specialmente a teatro.

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Lazzi & Intrallazzi #22Lazzi & Intrallazzi #18

Ad ogni gruppo spetta il compito di allestire uno spettacolo, con durata massima di 60 minuti in orario scolastico e serale, recitando la frase “le storie vanno raccontate se non vuoi che si perdano”. Scenografia caratterizzata da un oggetto misterioso, che non potrà essere toccato, spostato o spogliato, ubicato alla sinistra del palco in posizione leggermente defilata verso il fondale.

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Lazzi & Intrallazzi #26Lazzi & Intrallazzi #25

Ex Manicomio di Racconigi

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Manicomio di Racconigi #01

Il 13 Maggio 1978 entrava in vigore la famosa Legge Basaglia: “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. Sono passati solo 40 anni dalla legge che in Italia impose la chiusura dei manicomi, eppure se parliamo di camicie di forza ed elettroshock sembra di raccontare un altro mondo. Il manicomio di Racconigi, definito sarcasticamente Fabbrica delle Idee, è una struttura imponente nel pieno centro cittadino. E’ rimasto attivo dal 1871 al 1999, arrivando ad ospitare sino a 1500 pazienti. E’ diviso in padiglioni, il più importante, il più grande, è sicuramente il Chiarugi nel quale venivano alloggiati (e in alcuni casi internati) i malati di mente. Le condizioni della struttura non sono buone, ci sono i segni di un incendio recente e molti pavimenti (soprattutto all’ultimo piano) sembrano sul punto di cedere da un momento all’altro. Tutte le stanze nascondono qualcosa di interessante, di misterioso, girando per i corridoi si respira un’aria particolare: quando si esplora un manicomio abbandonato si riescono quasi a percepire le presenze dei malati, si intuisce come doveva essere la vita all’interno della struttura. E’ come un incredibile viaggio nel passato e nella storia del paese. Da anni ormai si parla di riconversione, soprattutto per la zona in cui si trova lo stabile: in pieno centro cittadino; eppure per una serie di motivi politici, finanziari e architettonici la situazione non si sblocca. Ed è un vero peccato. In questi giorni, complice l’importante ricorrenza storica, ho letto tanti articoli sugli ex manicomi in Italia e sulla loro situazione attuale: Racconigi non è l’unica città a vivere questa situazione, mi vengono in mente Voghera, Volterra, Vercelli, Genova, Mombello. Il punto è che ci sono anche esempi positivi al quale ispirarsi, come l’ex ospedale psichiatrico di Trieste dal quale partì la rivoluzione Basagliana: oggi è in parte recuperato e trasformato. Lo spazio non manca, le idee probabilmente nemmeno, i soldi si trovano: credo che nel 2018 sia giusto e doveroso far partire una nuova rivoluzione, sempre nel nome di Franco Basaglia, che permetta all’Italia di liberarsi di queste strutture fatiscenti per creare qualcosa di nuovo.

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Il manicomio di Racconigi, unico in provincia, venne allestito nel 1871 nel padiglione «Chiarugi», un palazzone di oltre diecimila metri quadrati, costruito a cavallo fra 700 e 800, prima come ospizio per i poveri, poi adibito fino al 1868 a collegio militare. Un uomo e una donna rispettivamente di Barge e Monastero Vasco, nel 1871, furono i primi ricoverati. Con gli anni, in particolare dopo la Grande Guerra 15/18, la struttura si ingrandì, fino ad occupare una dozzina di ettari. Si aggiunsero altri padiglioni: il «Morselli», il «Marro» e il «Tamburini», la lavanderia, la centrale termica, la colonia agricola, il parco, l’acquedotto. Una «città nella città» totalmente autosufficiente. Negli anni ’70 i ricoverati sfioravamo i 1.500 e vi lavoravano più di trecento addetti: 7 medici, 52 infermiere, 121 infermieri, oltre a 67 suore (che agli inizi erano 140), impiegati, cuochi, sarti, muratori, macellai, panettieri. (La Stampa)

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Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione. (Franco Basaglia)

C’è un limite all’urbex?

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Emiliano il Filatelista

Nell’ultimo periodo ho notato che la passione per la fotografia urbex ha iniziato a prendere una strana piega. Almeno questa è la mia sensazione. Quando ho iniziato, senza nemmeno sapere che fosse urbex, ho fotografato luoghi facilmente accessibili e vietati quasi per modo di dire. Ho iniziato dalle Rovine di Poggioreale distrutte dal terremoto del 1968 e rimango convinto che quel tipo di esplorazione urbana sia la più giusta e la più utile. Perché nel mio piccolo ho sempre pensato al reportage di luoghi abbandonati come a una denuncia, a un grido (di dolore) oppure a una memoria del passato. Il mio intento era quello di far conoscere al mondo posti che avrebbero potuto diventare nuovamente importanti: penso al Castello di Beinette, all’ex collegio Salesiano di Peveragno oppure alla devastata Italcementi di Imperia. Luoghi quindi molto conosciuti, ma nonostante tutto lasciati all’incuria e all’abbandono. Nell’indifferenza. Ultimamente ho notato che questo tipo di esplorazione è diventata di serie B, di poca importanza. Quasi banale nella sua semplicità. Nel 2018 è fondamentale essere i primi a scoprire, i primi a pubblicare, i primi a vantarsi. No, questo non è il mio pensiero. Il mio immaginario è dedicato alla fotografia, e dopo alla scoperta/denuncia. Se possibile. E capisco quanto sia difficile resistere alla tentazione di violare qualcosa di ancora inesplorato, oppure quasi inesplorato: ci sono caduto anche io nel tranello, nella frenesia di scoprire. Nella figurina a tutti i costi. Ma credo che ci sia un limite invalicabile, una legge morale. La regola è tangibile e semplice: “Non portare via niente, non rompere niente, non disturbare nessuno. Cattura immagini, lascia solo impronte nella polvere”. Spaccare un lucchetto, forzare una serratura oppure utilizzare una scala per entrare dal terrazzo di una casa disabitata non rientrano in quello che è il mio concetto di urbex. Ci ho pensato molto e non voglio che questo sia il mio tipo di fotografia. Dev’essere abbandono, evidente: tutto il resto è violazione di domicilio. Non è un discorso di legge, è un discorso morale. E non venitemi a dire che tutto è uguale perché non è vero: c’è il bianco, c’è il nero e ci sono tante tipologie diverse di grigio.

Cartoline da Cella Monte

Discesa nell’Infernot

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Infernot #01

Domenica scorsa, con il gruppo vacanze di MondovìPhoto, siamo scegli nelle viscere del Monferrato, alla scoperta dei celebri Infernot, nominati patrimonio dell’Unesco nel 2014. Non voglio soffermarsi sulla bellezza e sulla storia di queste straordinarie cantine del sottosuolo, d’altronde non sono una guida turistica (seguite il link), ma preferisco spiegare le difficoltà che si incontrano quando, oltre ad ammirare l’opera dei contadini del Monferrato, si cerca di fotografare al buio quasi totale. Meglio se in dieci in uno spazio di 20 metri quadrati avendo a disposizione solo qualche minuto. Ho scelto 9 foto scattate negli Infernot di Cella Monte, e per queste 9 foto sono riuscito ad utilizzare 4 obbiettivi diversi: 50, fish-eye, 24-70 e 16-35. Non male, lascio a voi capire quali foto, con quale mezzo. Tutte ovviamente scattate con il treppiede e lunghe esposizioni: la luminosità non è elevatissima, eufemismo, e quasi sempre è necessario arrivare a 10-15 secondi, talvolta anche oltre (sempre mantenendo gli ISO nel limite della decenza tecnica). Sarebbe bello poter dedicare ad ogni singolo Infernot più tempo e studiare qualcosa di più elaborato, giocando con luce ed ombra, ma sono foto di viaggio e il tempo è quasi sempre tiranno. Colgo l’occasione per ringraziare Domenico Rota, il nostro amico casalese (si dice così?), che è riuscito ad organizzare una due giorni unica e incredibile. GRAZIE.

Infernot #02Infernot #03Infernot #04

Infernot #05Infernot #06

Col termine piemontese infernòt si indica un locale sotterraneo costruito scavando a mano una particolare roccia arenaria, la pietra da cantoni, o in tufo e solitamente adibito a cantina o dispensa. Caratteristica comune a cantine e infernòt è l’assenza di luce e di aerazione diretta. L’infernòt si distingue tuttavia dalla cantina vera e propria, rispetto alla quale occupa in genere una posizione inferiore e svolge una funzione sussidiaria, concentrata sulla conservazione del vino imbottigliato.

Infernot #07Infernot #08Infernot #09

Sunrise (Porto Sole)

Sunrise (Bussana Mare)

Papagayo Street

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Papagayo Street #01

Per andare alla bellissima Papagayo Beach, a Lanzarote, si passa lungo una strada tortuosa, accidentata e sterrata (a pagamento anche, ci tengo a sottolinearlo che qui siamo liguri). All’inizio di questo percorso si scorge, sulla sinistra, una casa diroccata; non saprei altrimenti come definirla. In lontananza si intravedono i graffiti sulle pareti esterne. Non sono riuscito a fermarmi nel pomeriggio e mi sono dato appuntamento all’alba del giorno dopo. Della struttura è rimasto pochissimo, il tempo e gli agenti atmosferici hanno compiuto il loro percorso, ma è comunque affascinante: per l’ambiente, il luogo, i colori. Ho scattato con il 14mm, poche foto, ma qualcosa di bello sono riuscito a trovare anche in questi ruderi abbandonati da tanto tempo al loro destino. Ho inserito persino una foto naturalistica, è un po’ fuori dal contesto, ma è scattata sempre in Papagayo Street.

Papagayo Street #02Papagayo Street #03Papagayo Street #04

Papagayo Street #05Papagayo Street #06

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I will pray for human stupidity


San… Pietrini

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San... pietrini

Domenica scorsa ho partecipato alla decima edizione della Cuneo Photo Marathon (la più antica d’Italia). Fra i temi proposti, nella prima tornata, saltava all’occhio: “In questa città di… santi!“. Ovviamente si tratta di un titolo che apre le porte a qualsiasi interpretazione, i puntini di sospensione suggeriscono inoltre un malcelato tentativo di ironia. E qual è il santo più conosciuto di Cuneo? Sicuramente sono i famosi blocchetti di leucitite (ne ho imparata una nuova) che servono a piastrellare gran parte del centro storico della città: i sanpietrini (o sampietrini). Ho aspettato che la pioggia scendesse di intensità, ho approfittato della piazza semideserta e ho scattato con il 14mm praticamente per terra (meraviglia dello schermo orientabile) una visuale estesa dei celebri sanpietrini di Piazza Galimberti. E’ proprio una città di santi.

Losing my Religion

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Losing my religion

Qualche tempo fa ho assistito a una Lectio Magistralis di Giovanni Gastel: lui affermava che la fortuna di molti suoi lavori pubblicitari è stata quella di percepire si le indicazioni dei clienti, ma poi di svolgere il lavoro in modo del tutto personale, affidandosi alla sua fantasia; talvolta anche stravolgendo le idee del committente. Questa foto dovrebbe rappresentare uno dei temi della Photo Marathon cuneese: “Degustibus, questione di gusto”. Il riferimento è chiaro, si parla della fiera che il giorno della gara ha rallegrato il centro di Cuneo. Per non essere banale ho deciso di interpretare a modo mio il concetto e ho preferito associare il termine gusto alla religione: perché alla fine anche la religione è una questione di scelte, di preferenze e di tradizione. Sempre che non si decida di perdere le staffe e abbandonare la retta via.

That’s me in the corner
That’s me in the spotlight
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don’t know if I can do it
Oh no, I’ve said too much
I haven’t said enough

ACSA – Ex acciaierie Carrù

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ACSA #01

L’ACSA è una vecchia acciaieria in stato avanzato di abbandono. Si trova sulla fondovalle, a Carrù. E’ lasciata al suo degrado da quando, verso la fine del secolo scorso, venne chiusa dalla Guardia Forestale di Brescia per il reato di “lavorazione di rifiuti speciali”. Le indagini non portarono a nulla e il fabbricato venne dissequestrato nel 2004. Recentemente la procura di Brescia ha comunicato di aver tolto i sigilli ai materiali depositati nel sito, ma la situazione è diventata ingestibile. Per fotografare ho usato una mascherina per proteggere le vie respiratorie, probabilmente non mi sarà servita a nulla ma la quantità di polvere di materiali ferrosi all’interno è incredibile, e genera un po’ di preoccupazione: respirare è difficile; ho scattato quasi 100 foto (con tre obbiettivi diversi) in tempi record. La domanda nel 2018 è: chi deve smantellare? Una storia di indagini, degrado e ingiustizie all’italiana, una delle tante.

ACSA #02ACSA #03

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ACSA #17ACSA #18

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Barolo Focus

La villa del Boss

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